28/04/07 - LA NUOVA SARDEGNA - Monsignor Chenis, se l'arte è silenzio

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Monsignor Chenis, se l'arte è silenzio

La Nuova Sardegna — 28 aprile 2007   pagina 38   sezione: NAZIONALE

 BORORE. «Il tesoro della Sardegna è il legame intrinseco tra arte e ambiente. Quest’isola è un parco a cielo aperto, dalla civiltà megalitica, nuragica, precristiana, fino a quella cristiana attraverso tutte le sue varie manifestazioni. Ecco perché la rivalutazione del patrimonio artistico dovrebbe partire dall’ambiente». Sua eccellenza monsignor Carlo Chenis racconta semplici, elementari verità all’ombra delle cumbissias del novenario di San Lussorio, a Borore. Chenis, piemontese di Torino, 53 anni, è stato ordinato a febbraio vescovo di Civitavecchia e Tarquinia.  Ma per 12 anni, fino all’altro ieri, ha ricoperto l’incarico di Segretario della Pontificia commissione per i Beni culturali di Santa Romana Chiesa, alla quale, come tutti sanno, appartiene il più cospicuo patrimonio d’arte del mondo. Salesiano, insegna anche Filosofia e teoretica all’Università Salesiana, e, come spiega il signor Google, che di cose ne sa davvero tante, ha un infinito curriculum di incarichi tra università, organismi culturali, tecnici, accademici. Ovunque si tratti di coniugare arte, architettura, estetica, lui c’è. Ai quattro angoli della terra. Sua eccellenza, per capirci, è il plenipotenziario del Vaticano in materia di beni artistici e culturali.  Ma qui, a Borore, monignor Chenis è solo don Carlo. Nel novenario della chiesetta campestre di San Lussorio, semplice e austero esempio di architettura del 1600, è di casa. A Borore ci viene da vent’anni: «Appena ordinato sacerdote entrai nello staff dei superiori dell’Università. C’era l’usanza di inviare in alcuni comuni dei predicatori, e mi incaricarono di trovarne tre per Bortigali, Bolotana e Borore. Trovai i primi due, ma non per Borore. Decisi di venirci io». E da allora approda qui almeno due o tre volte ogni anno. Lo hanno persino fatto cittadino onorario; e lui, nell’omelia della suo ordinazione a vescovo, il 10 febbraio scorso (a ordinarlo il cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di stato Vaticano), ha inserito i santi Lussorio e Gavino. In onore dei suoi concittadini bororesi.  Accompagnato dal suo amico architetto Gianni Gallus, a Borore monsignor Chenis assapora il senso pieno dell’arte. Che dal suo punto di vista «è il coinvolgimento dei cinque sensi. Pensiamo per esempio alla liturgia del venerdì santo: ci sono gli odori degli incensi e dei profumi, c’è il tatto con le stoffe, gli occhi che apprezzano la ritualità delle celebrazioni, il gusto dei pani tradizionali, il suono dei quattro cantori che danno la quinta voce. Ecco, la tradizione culturale, e anche artistica e religiosa sarda, nasce dalla esaltazione dei sensi che diventa mistica». Don Carlo, tra tutti i suoi vari impegni, le decine di libri e le svariate centinaia di articoli che ha scritto, ha anche trovato il tempo di dedicare un libro ai riti de S’Iscravamentu, «ma ad Aidomaggiore abbiamo anche recuperato la tradizione de S’Incravamentu, meno conosciuta, tutta la preparazione dell’inchiodamento di Gesù in croce». Spiega il fascino altissimo di una religiosità che affonda le radici nella più antica cultura precristiana, di cui molti elementi sono accolti nella cultura e arte cristiana. «Ad esempio, la tradizione musicale sublimava il venerdì santo, che in Sardegna, e ancora più nel suo interno, esprime sofferenza, asperità della vita. A questa si accompagna però la visione cristiana, con il superamento della condizioni di difficoltà nei gesti e nella ritualità di ogni giorno. A Borore c’è un meraviglioso museo del pane, e il pane tradizionale scandiva, lo fa ancora oggi, le diverse ricorrenze religiose».  Borore sembra incarnare l’ideale dell’arte che coinvolge i cinque sensi. Tra i profumi degli alberi di una primavera che di colpo s’è fatta quasi estate, l’odore aspro dei cavalli, quello forte del vino buono e quello buono, casalingo dei dolcetti ricamati della festa, ci sono i colori del santuario. E la coreografia della gente. È un quadro compiuto. «Il problema dell’arte in Sardegna è che bisogna rimetterla nel territorio. Bisogna cioè recuperare il senso estetico, che oggi è posto al servizio pubblicitario del prodotto. L’estetica è esattamente il contrario: è il valore aggiunto che qualifica l’emozione, il senso intangibile. L’estetica, nell’arte, ha bisogno del silenzio. E in questo senso il centro Sardegna è un grande educatore estetico». Don Carlo parla e nella sua mano c’è l’anello vescovile. L’ha disegnato lui. Anche la croce sulla tonaca. Porta la malachite, una pietra sacra e arcaica, verde come il colore episcopale. E sono rappresentati l’ala e croce, il simbolo della ragione che porta a Dio. Ma cosa, al grande esperto d’arte, colpisce nelle espressioni della sacralità in Sardegna? «L’arcano, il senso del silenzio e della tradizione, che non siano solo un’espressione folcloristica, ma la volontà del vivere oggi. Quella delle chiese sarde è un’arte essenziale, arcaica e primitiva. Prende anche da altre correnti, c’è l’influenza spagnola, pisana, ma essenzialmente resta un manifesto arcaico. Penso alla chiesa di Santa Sabina, di Silanus: il nuraghe quasi le fa da campanile. Santa Maria delle Grazie di Aidomaggiore è edificata su una fortezza punica. E San Costantino di Sedilo: c’è l’impronta romana, bizantina ma anche la modernità della corsa dell’Ardia, quella balentìa che, nel senso religioso, viene sublimata...». Come fare per valorizzare al meglio questo patrimonio immenso? «Intanto dobbiamo capire che non dobbiamo solo tutelare dei manufatti ma dei beni. E i beni sono costituiti dall’insieme: è un habitat che ha il diritto di vivere. Non ha senso valorizzare quella determinata chiesa senza i suoi riti, la gente che sta attorno con le sue tradizioni, i suoi canti, i colori e i sapori. L’estetica crociana ha condizionato pesantemente questa valutazione, eliminando l’insieme. Ma io vedo l’arte come un teatro globale, ritualistico, un happening. E poi finiamola con questa tendenza demenziale a far diventare le chiese dei musei, luoghi aperti più al turismo che alla completezza del loro significato. Senza contare che anche i musei, almeno quelli gestiti nel modo più illuminato, hanno smesso di essere strutture inamovibili». Il territorio è il protagonista: ma come si fa ad affermarlo, nelle nostre città brutte e senz’anima? «È il risultato della schizofrenia moderna, le cose belle le chiudiamo nei musei e viviamo negli aspiranti loculi. Non è un caso che i piccoli villaggi siano più belli: c’è una cultura del trattare meglio il luogo in cui si vive, che poi è un trattare meglio sè stessi». Monsignor Chenis, cosa le fa male, rispetto alla fruizione dell’arte, nella Sardegna che per lui è una seconda terra? «Mi fa male il restauro eccessivamente filologico, mi fa male quando si ripristina distruggendo gli strati, eliminando così la complessità dell’esistente. E se è lecito togliere il brutto, non lo è cancellare la storia. Perchè si cancella la vita». Suvvia, qualche esempio. «Non si possono fare esempi, ci sono ancora soprintendenti e esperti vari in giro...» Don Carlo politicamente corretto, tra i suoi amici bororesi e i profumi di San Lussorio. Dove l’arte è estetica e coinvolgimento dei cinque sensi...

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