BORORE.
«Il tesoro della Sardegna è il legame intrinseco tra arte e
ambiente. Quest’isola è un parco a cielo aperto, dalla civiltà
megalitica, nuragica, precristiana, fino a quella cristiana
attraverso tutte le sue varie manifestazioni. Ecco perché la
rivalutazione del patrimonio artistico dovrebbe partire
dall’ambiente». Sua eccellenza monsignor Carlo Chenis
racconta semplici, elementari verità all’ombra delle
cumbissias del novenario di San Lussorio, a Borore. Chenis,
piemontese di Torino, 53 anni, è stato ordinato a febbraio
vescovo di Civitavecchia e Tarquinia. Ma per 12 anni, fino
all’altro ieri, ha ricoperto l’incarico di Segretario della
Pontificia commissione per i Beni culturali di Santa Romana
Chiesa, alla quale, come tutti sanno, appartiene il più
cospicuo patrimonio d’arte del mondo. Salesiano, insegna anche
Filosofia e teoretica all’Università Salesiana, e, come
spiega il signor Google, che di cose ne sa davvero tante, ha un
infinito curriculum di incarichi tra università, organismi
culturali, tecnici, accademici. Ovunque si tratti di coniugare
arte, architettura, estetica, lui c’è. Ai quattro angoli
della terra. Sua eccellenza, per capirci, è il plenipotenziario
del Vaticano in materia di beni artistici e culturali. Ma
qui, a Borore, monignor Chenis è solo don Carlo. Nel novenario
della chiesetta campestre di San Lussorio, semplice e austero
esempio di architettura del 1600, è di casa. A Borore ci viene
da vent’anni: «Appena ordinato sacerdote entrai nello staff
dei superiori dell’Università. C’era l’usanza di inviare
in alcuni comuni dei predicatori, e mi incaricarono di trovarne
tre per Bortigali, Bolotana e Borore. Trovai i primi due, ma non
per Borore. Decisi di venirci io». E da allora approda qui
almeno due o tre volte ogni anno. Lo hanno persino fatto
cittadino onorario; e lui, nell’omelia della suo ordinazione a
vescovo, il 10 febbraio scorso (a ordinarlo il cardinal Tarcisio
Bertone, Segretario di stato Vaticano), ha inserito i santi
Lussorio e Gavino. In onore dei suoi concittadini bororesi.
Accompagnato dal suo amico architetto Gianni Gallus, a
Borore monsignor Chenis assapora il senso pieno dell’arte. Che
dal suo punto di vista «è il coinvolgimento dei cinque sensi.
Pensiamo per esempio alla liturgia del venerdì santo: ci sono
gli odori degli incensi e dei profumi, c’è il tatto con le
stoffe, gli occhi che apprezzano la ritualità delle
celebrazioni, il gusto dei pani tradizionali, il suono dei
quattro cantori che danno la quinta voce. Ecco, la tradizione
culturale, e anche artistica e religiosa sarda, nasce dalla
esaltazione dei sensi che diventa mistica». Don Carlo, tra
tutti i suoi vari impegni, le decine di libri e le svariate
centinaia di articoli che ha scritto, ha anche trovato il tempo
di dedicare un libro ai riti de S’Iscravamentu, «ma ad
Aidomaggiore abbiamo anche recuperato la tradizione de S’Incravamentu,
meno conosciuta, tutta la preparazione dell’inchiodamento di
Gesù in croce». Spiega il fascino altissimo di una
religiosità che affonda le radici nella più antica cultura
precristiana, di cui molti elementi sono accolti nella cultura e
arte cristiana. «Ad esempio, la tradizione musicale sublimava
il venerdì santo, che in Sardegna, e ancora più nel suo
interno, esprime sofferenza, asperità della vita. A questa si
accompagna però la visione cristiana, con il superamento della
condizioni di difficoltà nei gesti e nella ritualità di ogni
giorno. A Borore c’è un meraviglioso museo del pane, e il
pane tradizionale scandiva, lo fa ancora oggi, le diverse
ricorrenze religiose». Borore sembra incarnare l’ideale
dell’arte che coinvolge i cinque sensi. Tra i profumi degli
alberi di una primavera che di colpo s’è fatta quasi estate,
l’odore aspro dei cavalli, quello forte del vino buono e
quello buono, casalingo dei dolcetti ricamati della festa, ci
sono i colori del santuario. E la coreografia della gente. È un
quadro compiuto. «Il problema dell’arte in Sardegna è che
bisogna rimetterla nel territorio. Bisogna cioè recuperare il
senso estetico, che oggi è posto al servizio pubblicitario del
prodotto. L’estetica è esattamente il contrario: è il valore
aggiunto che qualifica l’emozione, il senso intangibile.
L’estetica, nell’arte, ha bisogno del silenzio. E in questo
senso il centro Sardegna è un grande educatore estetico». Don
Carlo parla e nella sua mano c’è l’anello vescovile. L’ha
disegnato lui. Anche la croce sulla tonaca. Porta la malachite,
una pietra sacra e arcaica, verde come il colore episcopale. E
sono rappresentati l’ala e croce, il simbolo della ragione che
porta a Dio. Ma cosa, al grande esperto d’arte, colpisce nelle
espressioni della sacralità in Sardegna? «L’arcano, il senso
del silenzio e della tradizione, che non siano solo
un’espressione folcloristica, ma la volontà del vivere oggi.
Quella delle chiese sarde è un’arte essenziale, arcaica e
primitiva. Prende anche da altre correnti, c’è l’influenza
spagnola, pisana, ma essenzialmente resta un manifesto arcaico.
Penso alla chiesa di Santa Sabina, di Silanus: il nuraghe quasi
le fa da campanile. Santa Maria delle Grazie di Aidomaggiore è
edificata su una fortezza punica. E San Costantino di Sedilo:
c’è l’impronta romana, bizantina ma anche la modernità
della corsa dell’Ardia, quella balentìa che, nel senso
religioso, viene sublimata...». Come fare per valorizzare al
meglio questo patrimonio immenso? «Intanto dobbiamo capire che
non dobbiamo solo tutelare dei manufatti ma dei beni. E i beni
sono costituiti dall’insieme: è un habitat che ha il diritto
di vivere. Non ha senso valorizzare quella determinata chiesa
senza i suoi riti, la gente che sta attorno con le sue
tradizioni, i suoi canti, i colori e i sapori. L’estetica
crociana ha condizionato pesantemente questa valutazione,
eliminando l’insieme. Ma io vedo l’arte come un teatro
globale, ritualistico, un happening. E poi finiamola con questa
tendenza demenziale a far diventare le chiese dei musei, luoghi
aperti più al turismo che alla completezza del loro
significato. Senza contare che anche i musei, almeno quelli
gestiti nel modo più illuminato, hanno smesso di essere
strutture inamovibili». Il territorio è il protagonista: ma
come si fa ad affermarlo, nelle nostre città brutte e
senz’anima? «È il risultato della schizofrenia moderna, le
cose belle le chiudiamo nei musei e viviamo negli aspiranti
loculi. Non è un caso che i piccoli villaggi siano più belli:
c’è una cultura del trattare meglio il luogo in cui si vive,
che poi è un trattare meglio sè stessi». Monsignor Chenis,
cosa le fa male, rispetto alla fruizione dell’arte, nella
Sardegna che per lui è una seconda terra? «Mi fa male il
restauro eccessivamente filologico, mi fa male quando si
ripristina distruggendo gli strati, eliminando così la
complessità dell’esistente. E se è lecito togliere il
brutto, non lo è cancellare la storia. Perchè si cancella la
vita». Suvvia, qualche esempio. «Non si possono fare esempi,
ci sono ancora soprintendenti e esperti vari in giro...» Don
Carlo politicamente corretto, tra i suoi amici bororesi e i
profumi di San Lussorio. Dove l’arte è estetica e
coinvolgimento dei cinque sensi...