L’uomo,
generalmente, si affeziona alla casa in cui nasce.
Quantunque possa vivere lontano dalla propria casa,
viver bene, sarà difficile che riesca a sottrarsi
al fascino e all'attrazione che esercita quel
"nido", sia pur il più modesto, il più
sperduto della terra.
Io,
sin da bambino, ricordo di aver sempre sentito un
profondo attaccamento alla mia casa, alle persone di
tutto il vicinato, alle strade e ai vicoli, dove,
per noi bambini, c'era l'universo. Le rare volte in
cui necessariamente mi son dovuto assentare sentivo,
in continuazione, un vivissimo desiderio di
ritornare a casa, attratto da una forza invisibile e
misteriosa.
Il
punto prediletto per il ritrovo infantile, la sede
centrale del "nostro" territorio, era la
piazzetta vicina alla nostra casa: "Sa Praza 'e
su Monte". Perche si chiama "Praza 'e su
Monte" è presto detto: a quei tempi, dove
attualmente ha sede il Banco di Sardegna, ospitava
il "Monte Granatico", che aveva funzione
sia per l'ammasso del grano, sia come società di
mutuo soccorso: in questo caso oltre che prestare
denaro, prestavano anche del grano, che, con
l'interesse, veniva restituito al nuovo raccolto.
Spesso
in compagnia di Alessandro, (in seguito anche con un
mio fratello minore di tre anni, Pasqualino) in
questa piazzetta ci procuravamo i nostri giuochi,
trastullandoci con cose da nulla. Sempre in questa
piazzetta ebbero inizio i nostri giuochi a
nascondino, giuochi che ci spingevano a oltrepassare
l'area circoscritta, stuzzicando la nostra curiosità
e quel naturale desiderio di andare verso
l'ignoto...
Dalla
nostra casa, mentre discorrevano animatamente, si
poteva sentire la voce delle persone che avevano
qualche faccenda da sbrigare al "Monte
Granatico"; si aveva in vista, senza volerlo,
il viavai di quanti si dovevano recare all'Ufficio
Postale, (in quel periodo aveva la sua sede in fondo
alla Via Umberto I) ma soprattutto, le donne che
frequentemente passavano per recarsi alla fontana di
Binzale, per attingere l'acqua per la casa.
In
ricorrenze delle feste religiose, in modo
particolare se si doveva portare un santo in
processione, all'ora stabilita, alla spicciolata
incominciavano ad arrivare donne giovani e anziane
che abitavano nei dintorni, per godersi quel momento
in cui la processione percorreva il breve tratto di
strada di fronte alla nostra casa.
* * *
La
mia casetta col suo pergolato che dava sulla strada,
la sua particolare posizione e il vantaggio di poter
offrire posti a sedere vicino alla porta, nei
pomeriggi e più spesso nelle sere estive, di
frequente veniva animata dalle donne del vicinato e
dai loro racconti, improntati sulle credenze
popolari.
Ecco
tia Isperanza. Una delle donne più anziane e più
loquaci di quante allora si avvicinassero per
prendere il fresco e di quante c'intrattenessero in
questi racconti leggendari, raccontati in perfetta
buona fede e, che, quasi sempre, vedevano
protagonisti i defunti.
Noi
bambini ascoltavamo in silenzio, mentre la paura a
poco a poco c'invadeva il corpo e lo spirito,
pensando a quanti in quel momento si potessero
trovare da soli, in modo particolare se il paese si
trovasse già avvolto nelle tenebre della notte.
"Sas
surtores", vampiri, che di notte penetravano
nelle case e succhiavano il sangue ai bambini. Ma
nella credenza del popolo, venivano anche
raffigurate come donne di piccola statura: uscivano
di notte, ascoltavano la messa (la messa delle
streghe) e vagavano con un gran desiderio di
spaventare quanti avessero incontrato sulla loro
strada.
C'era
"su carru 'e sos mortos", il carro dei
morti, mentre nel cuore della notte avanzava
lentamente producendo un rumore terrificante. Ed io
mi ricordo che in certe sere d'estate, quando sul
tardi si prendeva il fresco, nel sentire questi
racconti, eravamo tutt'orecchi se mai si potesse
incorrere in questo pericolo.
"Su
caddu travau", il cavallo impastoiato, con la
catena che strisciava sul selciato avanzava con un
frastuono che, congiunto al rumore del passo del
cavallo, atterriva il silenzio della notte. Per le
donne, per i bambini bastava sentire qualche cosa
che ricordasse questo rumore, per correre a
rinchiudersi dentro casa.
C'erano
'.sas pantumas", ombre che nel buio della
notte, quando la luna nascosta dalle nubi faceva
capolino proiettando la sua luce, apparivano
spettrali figure addossate ai muriccioli dei cortili
di alcune casette, simili ad uomini in agguato.
Così
ricordo la mia fanciullezza nel sentire tia
Isperanza, tia Boricca, mia madre ed altre donne del
vicinato nei momenti in cui, con assoluta
convinzione raccontavano queste ed altre novelle che
a loro volta avevano sentito raccontare dai loro
antenati.
Tia
Michela, con la quale abbiamo sempre avuto buoni
rapporti di amicizia, aveva un 'opinione un po'
diversa nel considerare gli aspetti di queste
leggende: insieme alle credenze popolari, associava
l'annuncio di una nuova mentalità.
* * *
Ricordo
altresì le frequenti visite che venivano scambiate
tra mia madre e le due sorelle, zia Maura e zia
Rosa.
Zia
Rosa abitava nelle vicinanze della nostra casa, e,
non passava giorno che l'una o l'altra sorella, non
facesse una capatina in casa dell'altra. Anzi, mia
zia, data la posizione della sua casa, dopo un breve
tratto di strada, poteva chiamare a voce (lo faceva
spesso), per un avviso qualsiasi.
Ricordo
bene che, spesso dal solito punto, chiamava mia
madre per offrirle il caffè, che aveva appena
preparato, dato che, tra sorelle, offrirsi il caffè
a vicenda era una lontana consuetudine.
Zia
Maura abitava più distante, in un diverso rione,
Cortesusu. Tuttavia avendo l'opportunità di poter
visitare sia l'una che l'altra sorella, anche le sue
visite erano frequenti.
Questi
incontri, inoltre, offrivano l'occasione per farsi
le confidenze e ottenere suggerimenti, comunicandosi
gioie e preoccupazioni della giornata. Conversando
animatamente, passavano insieme una mezz'ora,
esprimendo giudizi e considerazioni con un certo
spirito di protezione.
Su
tutto faceva da cornice il chiasso dei bambini, il
frastuono prodotto dai carri agricoli mentre
attraversavano le strade del paese e la voce dei
massai che sull'acciottolato delle strade, ogni
tanto, incitavano i buoi che trainavano i carri
cigolanti.
Questi
ricordi sono rimasti vivi nella mia memoria, e,
potendo rifare a ritroso il corso della mia: vita,
arrivato a questo punto, mi fermerei a lungo per
risentire la voce dei miei genitori, delle mie zie e
delle anziane donne vicine di casa.
* * *
Ricordo
tia Filumena, che quando si presentava l'occasione,
s'intratteneva da noi, ma, più spesso, per ragioni
di lavoro, era mia madre che veniva da lei.
Tia
Filumena aveva una forte personalità e parlava con
naturalezza, imperturbabile, come un predicatore
medioevale. Al contrario di tante vecchiette di quei
tempi, preferiva argomenti di cose più concrete e
la sua conversazione era sempre piacevole.
Con
la sua famiglia, mia madre aveva buoni rapporti di
amicizia; dato che lei, tia Filumena, sia il marito,
tiu Bachisi e il figlio Pasquale, erano
rispettivamente comare e compari di mia madre, per
aver tenuto a battesimo due dei miei fratelli: il
primo a battesimo, il secondo a cresima.
* * *
Intanto
mi sovviene che a breve distanza dalla nostra casa,
abitavano anche le sorelle Masia: tia Michela, tia
Peppina e tia Doloretta.
Mi
rammento che quando si doveva attingere l'acqua
dalla fontana di Binzale, alternandosi tra loro,
passavano spesso, con l'anfora tenuta in equilibrio
sul capo come allora era costume.
Una
volta, il loro fratello tiu Peppe, si era ammalato e
loro si industriarono, come infermiere, preparando
qualche decotto. Avevano preso tutte le precauzioni
possibili, pregando il loro fratello affinché,
scrupolosamente, osservasse quanto loro gli
consigliavano.
* * *
Ricordo
tia Marziana, quando, nei meriggi estivi, al suo
rientro da Borore, passava davanti alla nostra casa.
Nei mesi di agosto e di settembre vi si recava
spesso, per il commercio di frutta e di ortaggi.
A
quell'ora, tutto era silenzio. Intensa la caldura
estiva. Dall'alto, il sole mostrava tutta la sua
grandezza, tutto il suo splendore. Le galline,
accoccolate, cercavano un po' di fresco sotto il
pergolato; i cani di passaggio, con la lingua fuori
dalla bocca, pareva si volessero fare i dispetti a
vicenda.
Tia
Marziana faceva rientro a casa con l'asinello che,
stanco e malinconico, mostrava le ceste vuote, ma
con un sacco che parlava di orzo o di grano: uno
scambio di merce.
Il
sacco ben poggiato sopra il basto del somaro, con le
estremità che piegavano sulle pareti delle ceste,
che, a loro volta, erano tenute in equilibrio da
un'asta di legno proporzionata, che reggeva i
quattro manici delle ceste stesse.
* * *
Avevo
sei anni e in modo un po' confuso, ricordo uno
spaventoso temporale, che nel 1933, violentissimo si
abbatté su Aidomaggiore e sulla sua campagna. Era
il due di settembre.
Verso
mezzogiorno, il cielo divenne cupo. Sempre più cupo
e più compatto. Nel giro di pochi minuti, si scatenò
il temporale: pioggia, grandine e vento. I lampi
proiettavano luci improvvise e abbaglianti. I tuoni
scoppiavano con tremendi boati. Furono momenti di
terrore. Il paese e la campagna divennero muti:
parlava solamente la natura.
Il
temporale, dopo aver seminato lutto e distruzione,
finalmente si placò.
Quella
mattina, mio padre, dopo aver accudito alle sue
pecore, si era recato a "su 'Tuvu" per
spaccare legna per il prossimo inverno, sarebbe
dovuto rientrare per pranzo.
In
casa, mia madre era in ansia, che aumentava in
rapporto al trascorrere dei minuti e inevitabilmente
si trasmetteva a tutte le persone presenti.
I
vicini di casa, i passanti, che capitavano da queste
parti, visto che mio padre non era ancora rientrato,
si avvicinavano per domandare sue notizie.
La
mamma, intanto, sempre più preoccupata, dava ordine
che mio fratello Mauro, che allora aveva undici
anni, ed io ci recassimo a "su Tuvu" per
chiamare il babbo. Quindici, venti minuti ed eravamo
già a "su Tuvu". Ci sembrava naturale che
chiamandolo ad alta voce, lui avesse dovuto
risponderci subito, e, insieme, far ritorno a casa.
Ma non fu così.
Al
nostro rientro a casa, la mamma nel sentire che non
avevamo incontrato il babbo, si mise a piangere:
presentiva una disgrazia irreparabile.
Tutto
il paese si commosse.
A
questo punto un gruppetto di persone fra le quali
zia Maura e zia Rosa s'incamminò verso "su
Tuvu". Sparpagliandosi in diverse direzioni,
dopo una breve perlustrazione, a poca distanza dal
sentiero dove poco prima mio fratello ed io, ignari,
eravamo passati, uno del gruppo (Pedru Deriu)
riusciva a scoprire il cadavere di mio padre.
Sotto
un alberello, con i suoi attrezzi da lavoro, mio
padre, giaceva prono: un fulmine lo aveva colpito
con tutta la sua violenza.
Non
ci rimase neanche il conforto dell'estremo saluto:
trasportato direttamente all'obitorio, l'autorità
giudiziaria ne disponeva l'autopsia.
* * *
E
tia Remunda? Eh! Se la ricordo!
Tia
Remunda era una vecchietta che viveva sola ed
abitava quasi di fronte alla nostra casa. Ricordo
che non era originaria di Aidomaggiore; ma, una
volta rimasta vedova, aveva preferito continuare a
vivere nel nostro paese.
Tia
Remunda era abbonata a 'La Madonna della Guardia' ed
ogni volta che riceveva il fascicolo, veniva da noi
per farcelo vedere; e, nell'eventualità che
trovasse un bambino che fosse già in grado di saper
leggere (lei era analfabeta) esigeva che le venisse
letta la rivista, almeno nei suoi punti più
salienti. Succedeva che dopo un po', il bambino, o
la bambina, si stancasse della lettura e smettesse
cercando di allontanarsi per riprendere il giuoco; a
questo punto, lei, con la voce risentita, lo
riprendeva in malo modo.
Se
invece non aveva il giornale incominciava un lungo
interminabile poema. Aveva una parlantina sciolta e,
con un basso tono della voce, dava inizio al
racconto delle sue tribolazioni. Così, a furia di
ripetere “sono la donna più tribolata di questo
mondo”, finì che le appiopparono il soprannome:
"sa Tribulada".
Perche
fosse tribolata, è presto detto. La poveretta
raccontava che di notte (e anche di giorno) era
vittima di certe apparizioni di anime di defunti; o,
come lei stessa diceva, le apparivano e le parlavano
i morti. Di lei si servivano per gli incarichi più
svariati: la incaricavano di riferire ai rispettivi
familiari quanto loro le ordinavano. Guai, se avesse
disubbidito: erano percosse che lasciavano i lividi.
Effettivamente ogni tanto faceva vedere qualche
contusione sulle mani o sulle braccia, ma nessuno ha
mai potuto capire come se le potesse provocare.
Per
questi motivi, spesso era costretta a recarsi presso
le famiglie per cui aveva ricevuto l'incarico.
Quanto era da esporre era sempre del solito tenore:
d'inverno, le anime dei defunti sentivano il
desiderio di bere qualche cosa, più spesso,
manifestavano la sensazione di sentire il freddo. Il
tutto veniva esposto con semplicità e chiarezza,
come se si trattasse di una verità la più fondata
del mondo.
A
questo punto, gli interessati, sia per il rispetto
dei propri defunti, sia per uno scrupolo di
coscienza, cercavano di essere comprensivi e
riconoscenti. |