Ricordando di Giovanni Battista Piras

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Attraversando la Sardegna Aidomaggiore Un viaggio sfortunato La casa dei fantasmi La messa dei morti
Addio A mio fratello Mauro A mio padre A mia madre Nostalgia

Aidomaggiore

In una zona fertile ed amena,

nella Tirsea Valle come un fiore,

circondato di poggi una catena,

ridente giace, sì, Aidomaggiore.

Lo nascondono gli oliveti appena,

gli agrumi, varian il suo bel colore;

vi dimora la gente pia, serena,

generosa, espansiva e tutta cuore.

Tra le colline vaghe e i prati erbosi,

le tre Chiesette si ergono, e chissà. ..

da che lontani tempi misteriosi!

Nella sua campagna sparsi qua e là,

i Nuraghi vetusti e maestosi,

che parlan di remota civiltà.


L’uomo, generalmente, si affeziona alla casa in cui nasce. Quantunque possa vivere lontano dalla propria casa, viver bene, sarà difficile che riesca a sottrarsi al fascino e all'attrazione che esercita quel "nido", sia pur il più modesto, il più sperduto della terra.

Io, sin da bambino, ricordo di aver sempre sentito un profondo attaccamento alla mia casa, alle persone di tutto il vicinato, alle strade e ai vicoli, dove, per noi bambini, c'era l'universo. Le rare volte in cui necessariamente mi son dovuto assentare sentivo, in continuazione, un vivissimo desiderio di ritornare a casa, attratto da una forza invisibile e misteriosa.

Il punto prediletto per il ritrovo infantile, la sede centrale del "nostro" territorio, era la piazzetta vicina alla nostra casa: "Sa Praza 'e su Monte". Perche si chiama "Praza 'e su Monte" è presto detto: a quei tempi, dove attualmente ha sede il Banco di Sardegna, ospitava il "Monte Granatico", che aveva funzione sia per l'ammasso del grano, sia come società di mutuo soccorso: in questo caso oltre che prestare denaro, prestavano anche del grano, che, con l'interesse, veniva restituito al nuovo raccolto.

 

Spesso in compagnia di Alessandro, (in seguito anche con un mio fratello minore di tre anni, Pasqualino) in questa piazzetta ci procuravamo i nostri giuochi, trastullandoci con cose da nulla. Sempre in questa piazzetta ebbero inizio i nostri giuochi a nascondino, giuochi che ci spingevano a oltrepassare l'area circoscritta, stuzzicando la nostra curiosità e quel naturale desiderio di andare verso l'ignoto...

Dalla nostra casa, mentre discorrevano animatamente, si poteva sentire la voce delle persone che avevano qualche faccenda da sbrigare al "Monte Granatico"; si aveva in vista, senza volerlo, il viavai di quanti si dovevano recare all'Ufficio Postale, (in quel periodo aveva la sua sede in fondo alla Via Umberto I) ma soprattutto, le donne che frequentemente passavano per recarsi alla fontana di Binzale, per attingere l'acqua per la casa.

In ricorrenze delle feste religiose, in modo particolare se si doveva portare un santo in processione, all'ora stabilita, alla spicciolata incominciavano ad arrivare donne giovani e anziane che abitavano nei dintorni, per godersi quel momento in cui la processione percorreva il breve tratto di strada di fronte alla nostra casa.

 

* * *

 

La mia casetta col suo pergolato che dava sulla strada, la sua particolare posizione e il vantaggio di poter offrire posti a sedere vicino alla porta, nei pomeriggi e più spesso nelle sere estive, di frequente veniva animata dalle donne del vicinato e dai loro racconti, improntati sulle credenze popolari.

Ecco tia Isperanza. Una delle donne più anziane e più loquaci di quante allora si avvicinassero per prendere il fresco e di quante c'intrattenessero in questi racconti leggendari, raccontati in perfetta buona fede e, che, quasi sempre, vedevano protagonisti i defunti.

Noi bambini ascoltavamo in silenzio, mentre la paura a poco a poco c'invadeva il corpo e lo spirito, pensando a quanti in quel momento si potessero trovare da soli, in modo particolare se il paese si trovasse già avvolto nelle tenebre della notte.

"Sas surtores", vampiri, che di notte penetravano nelle case e succhiavano il sangue ai bambini. Ma nella credenza del popolo, venivano anche raffigurate come donne di piccola statura: uscivano di notte, ascoltavano la messa (la messa delle streghe) e vagavano con un gran desiderio di spaventare quanti avessero incontrato sulla loro strada.

C'era "su carru 'e sos mortos", il carro dei morti, mentre nel cuore della notte avanzava lentamente producendo un rumore terrificante. Ed io mi ricordo che in certe sere d'estate, quando sul tardi si prendeva il fresco, nel sentire questi racconti, eravamo tutt'orecchi se mai si potesse incorrere in questo pericolo.

"Su caddu travau", il cavallo impastoiato, con la catena che strisciava sul selciato avanzava con un frastuono che, congiunto al rumore del passo del cavallo, atterriva il silenzio della notte. Per le donne, per i bambini bastava sentire qualche cosa che ricordasse questo rumore, per correre a rinchiudersi dentro casa.

C'erano '.sas pantumas", ombre che nel buio della notte, quando la luna nascosta dalle nubi faceva capolino proiettando la sua luce, apparivano spettrali figure addossate ai muriccioli dei cortili di alcune casette, simili ad uomini in agguato.

Così ricordo la mia fanciullezza nel sentire tia Isperanza, tia Boricca, mia madre ed altre donne del vicinato nei momenti in cui, con assoluta convinzione raccontavano queste ed altre novelle che a loro volta avevano sentito raccontare dai loro antenati.

Tia Michela, con la quale abbiamo sempre avuto buoni rapporti di amicizia, aveva un 'opinione un po' diversa nel considerare gli aspetti di queste leggende: insieme alle credenze popolari, associava l'annuncio di una nuova mentalità.

 

* * *

 

Ricordo altresì le frequenti visite che venivano scambiate tra mia madre e le due sorelle, zia Maura e zia Rosa.

Zia Rosa abitava nelle vicinanze della nostra casa, e, non passava giorno che l'una o l'altra sorella, non facesse una capatina in casa dell'altra. Anzi, mia zia, data la posizione della sua casa, dopo un breve tratto di strada, poteva chiamare a voce (lo faceva spesso), per un avviso qualsiasi.

Ricordo bene che, spesso dal solito punto, chiamava mia madre per offrirle il caffè, che aveva appena preparato, dato che, tra sorelle, offrirsi il caffè a vicenda era una lontana consuetudine.

Zia Maura abitava più distante, in un diverso rione, Cortesusu. Tuttavia avendo l'opportunità di poter visitare sia l'una che l'altra sorella, anche le sue visite erano frequenti.

Questi incontri, inoltre, offrivano l'occasione per farsi le confidenze e ottenere suggerimenti, comunicandosi gioie e preoccupazioni della giornata. Conversando animatamente, passavano insieme una mezz'ora, esprimendo giudizi e considerazioni con un certo spirito di protezione.

Su tutto faceva da cornice il chiasso dei bambini, il frastuono prodotto dai carri agricoli mentre attraversavano le strade del paese e la voce dei massai che sull'acciottolato delle strade, ogni tanto, incitavano i buoi che trainavano i carri cigolanti.

Questi ricordi sono rimasti vivi nella mia memoria, e, potendo rifare a ritroso il corso della mia: vita, arrivato a questo punto, mi fermerei a lungo per risentire la voce dei miei genitori, delle mie zie e delle anziane donne vicine di casa.

 

* * *

 

Ricordo tia Filumena, che quando si presentava l'occasione, s'intratteneva da noi, ma, più spesso, per ragioni di lavoro, era mia madre che veniva da lei.

Tia Filumena aveva una forte personalità e parlava con naturalezza, imperturbabile, come un predicatore medioevale. Al contrario di tante vecchiette di quei tempi, preferiva argomenti di cose più concrete e la sua conversazione era sempre piacevole.

Con la sua famiglia, mia madre aveva buoni rapporti di amicizia; dato che lei, tia Filumena, sia il marito, tiu Bachisi e il figlio Pasquale, erano rispettivamente comare e compari di mia madre, per aver tenuto a battesimo due dei miei fratelli: il primo a battesimo, il secondo a cresima.

 

* * *

 

Intanto mi sovviene che a breve distanza dalla nostra casa, abitavano anche le sorelle Masia: tia Michela, tia Peppina e tia Doloretta.

Mi rammento che quando si doveva attingere l'acqua dalla fontana di Binzale, alternandosi tra loro, passavano spesso, con l'anfora tenuta in equilibrio sul capo come allora era costume.

Una volta, il loro fratello tiu Peppe, si era ammalato e loro si industriarono, come infermiere, preparando qualche decotto. Avevano preso tutte le precauzioni possibili, pregando il loro fratello affinché, scrupolosamente, osservasse quanto loro gli consigliavano.

 

* * *

 

Ricordo tia Marziana, quando, nei meriggi estivi, al suo rientro da Borore, passava davanti alla nostra casa. Nei mesi di agosto e di settembre vi si recava spesso, per il commercio di frutta e di ortaggi.

A quell'ora, tutto era silenzio. Intensa la caldura estiva. Dall'alto, il sole mostrava tutta la sua grandezza, tutto il suo splendore. Le galline, accoccolate, cercavano un po' di fresco sotto il pergolato; i cani di passaggio, con la lingua fuori dalla bocca, pareva si volessero fare i dispetti a vicenda.

Tia Marziana faceva rientro a casa con l'asinello che, stanco e malinconico, mostrava le ceste vuote, ma con un sacco che parlava di orzo o di grano: uno scambio di merce.

Il sacco ben poggiato sopra il basto del somaro, con le estremità che piegavano sulle pareti delle ceste, che, a loro volta, erano tenute in equilibrio da un'asta di legno proporzionata, che reggeva i quattro manici delle ceste stesse.

 

* * *

 

Avevo sei anni e in modo un po' confuso, ricordo uno spaventoso temporale, che nel 1933, violentissimo si abbatté su Aidomaggiore e sulla sua campagna. Era il due di settembre.

Verso mezzogiorno, il cielo divenne cupo. Sempre più cupo e più compatto. Nel giro di pochi minuti, si scatenò il temporale: pioggia, grandine e vento. I lampi proiettavano luci improvvise e abbaglianti. I tuoni scoppiavano con tremendi boati. Furono momenti di terrore. Il paese e la campagna divennero muti: parlava solamente la natura.

Il temporale, dopo aver seminato lutto e distruzione, finalmente si placò.

Quella mattina, mio padre, dopo aver accudito alle sue pecore, si era recato a "su 'Tuvu" per spaccare legna per il prossimo inverno, sarebbe dovuto rientrare per pranzo.

In casa, mia madre era in ansia, che aumentava in rapporto al trascorrere dei minuti e inevitabilmente si trasmetteva a tutte le persone presenti.

I vicini di casa, i passanti, che capitavano da queste parti, visto che mio padre non era ancora rientrato, si avvicinavano per domandare sue notizie.

La mamma, intanto, sempre più preoccupata, dava ordine che mio fratello Mauro, che allora aveva undici anni, ed io ci recassimo a "su Tuvu" per chiamare il babbo. Quindici, venti minuti ed eravamo già a "su Tuvu". Ci sembrava naturale che chiamandolo ad alta voce, lui avesse dovuto risponderci subito, e, insieme, far ritorno a casa. Ma non fu così.

Al nostro rientro a casa, la mamma nel sentire che non avevamo incontrato il babbo, si mise a piangere: presentiva una disgrazia irreparabile.

Tutto il paese si commosse.

A questo punto un gruppetto di persone fra le quali zia Maura e zia Rosa s'incamminò verso "su Tuvu". Sparpagliandosi in diverse direzioni, dopo una breve perlustrazione, a poca distanza dal sentiero dove poco prima mio fratello ed io, ignari, eravamo passati, uno del gruppo (Pedru Deriu) riusciva a scoprire il cadavere di mio padre.

Sotto un alberello, con i suoi attrezzi da lavoro, mio padre, giaceva prono: un fulmine lo aveva colpito con tutta la sua violenza.

Non ci rimase neanche il conforto dell'estremo saluto: trasportato direttamente all'obitorio, l'autorità giudiziaria ne disponeva l'autopsia.

 

* * *

 

E tia Remunda? Eh! Se la ricordo!

Tia Remunda era una vecchietta che viveva sola ed abitava quasi di fronte alla nostra casa. Ricordo che non era originaria di Aidomaggiore; ma, una volta rimasta vedova, aveva preferito continuare a vivere nel nostro paese.

Tia Remunda era abbonata a 'La Madonna della Guardia' ed ogni volta che riceveva il fascicolo, veniva da noi per farcelo vedere; e, nell'eventualità che trovasse un bambino che fosse già in grado di saper leggere (lei era analfabeta) esigeva che le venisse letta la rivista, almeno nei suoi punti più salienti. Succedeva che dopo un po', il bambino, o la bambina, si stancasse della lettura e smettesse cercando di allontanarsi per riprendere il giuoco; a questo punto, lei, con la voce risentita, lo riprendeva in malo modo.

Se invece non aveva il giornale incominciava un lungo interminabile poema. Aveva una parlantina sciolta e, con un basso tono della voce, dava inizio al racconto delle sue tribolazioni. Così, a furia di ripetere “sono la donna più tribolata di questo mondo”, finì che le appiopparono il soprannome: "sa Tribulada".

Perche fosse tribolata, è presto detto. La poveretta raccontava che di notte (e anche di giorno) era vittima di certe apparizioni di anime di defunti; o, come lei stessa diceva, le apparivano e le parlavano i morti. Di lei si servivano per gli incarichi più svariati: la incaricavano di riferire ai rispettivi familiari quanto loro le ordinavano. Guai, se avesse disubbidito: erano percosse che lasciavano i lividi. Effettivamente ogni tanto faceva vedere qualche contusione sulle mani o sulle braccia, ma nessuno ha mai potuto capire come se le potesse provocare.

Per questi motivi, spesso era costretta a recarsi presso le famiglie per cui aveva ricevuto l'incarico. Quanto era da esporre era sempre del solito tenore: d'inverno, le anime dei defunti sentivano il desiderio di bere qualche cosa, più spesso, manifestavano la sensazione di sentire il freddo. Il tutto veniva esposto con semplicità e chiarezza, come se si trattasse di una verità la più fondata del mondo.

A questo punto, gli interessati, sia per il rispetto dei propri defunti, sia per uno scrupolo di coscienza, cercavano di essere comprensivi e riconoscenti.

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